Il teatro e le fiabe
1. Rosaspina
Le fiabe hanno da sempre fornito
molto materiale per il teatro.
Anche tralasciando le
interpretazioni psicoanalitiche,
che fanno delle fiabe un esempio di narrazione al servizio della formazione
dell'individuo e della società (obiettivo non esclusivo, ma sicuramente
centrale del teatro), il loro contenuto magico, la lotta tra il bene e il male,
la varietà dei personaggi, fanno di queste storie un inesauribile archivio cui
far riferimento per la messa in scena.
Ma è innanzitutto la caratteristica
principale delle fiabe, il loro essere raccontate
prima ancora che lette, che le rende molto vicine al teatro, che trasforma in
un palcoscenico anche le quattro mura di
una cameretta di bambini: le fiabe si dicono,
si recitano, si tramandano da una
generazione all’altra attraverso la parola detta, piuttosto che scritta.
Le fiabe hanno mille personaggi
con mille voci, ed anche il più inesperto dei genitori si improvvisa attore per
fare la voce del Lupo Cattivo che mangia Cappuccetto Rosso.
Il recente anniversario della
pubblicazione delle fiabe raccolte dai fratelli Grimm (200 anni nel 2012) ha
posto, se possibile, ancora più attenzione al tema fiabesco, sia nelle
produzioni televisive (la fiction americana Once Upon A Time, ad
esempio) che nelle rivisitazioni cinematografiche per bambini e per adulti, che negli allestimenti
teatrali (La bella Rosaspina addormentata
di Emma Dante, per citarne uno).
Mi è capitato, recentemente, nel
mio lavoro di drammaturga e regista, di lavorare su alcuni testi derivanti in
qualche modo dalle fiabe: la motivazione scatenante è stato proprio
l’anniversario dei Grimm, che mi ha fatto capitare quasi per caso tra le mani
il libro che conteneva le loro fiabe.
La lettura fatta con occhi da
adulta mi ha rivelato la loro capacità di parlare del presente e nel presente,
la possibilità di effettuare numerosi paralleli con la realtà che mi circonda,
una volta tolto il velo magico e favolistico che rende le fiabe così preziose
alle orecchie dei bambini.
Le fiabe, infatti, come tutti i
testi classici, si adattano con facilità ai differenti periodi storici e i loro
insegnamenti (se di questi si può parlare) sono validi nei diversi momenti
della vita dell’uomo: il loro nucleo centrale rimane intatto ed immutato,
seppure luoghi, tempi e circostanze mutino di volta in volta e così facendo
riescono ad essere sempre contemporanee.
Il mio lavoro sulle fiabe è
iniziato con Rosaspina, da tutti
conosciuta come La bella addormentata.
Centrale, per tutta la
fiaba, mi è sembrata la tematica del tempo: all’inizio, quando la fata che
non era stata invitata alla festa decide di vendicarsi, la maledizione che essa pronuncia viene
“attenuata” da una fata che ancora non aveva dato il suo dono alla piccola.
Un anticipo di tempo, da parte
della fata cattiva, che pregiudica il risultato che voleva ottenere: Rosaspina
non morirà, quando si pungerà con un fuso, ma dormirà, per cento anni.
Cento anni, per un uomo, e per i
bambini che ascoltano la fiaba, sono un periodo di tempo lunghissimo, è come
dire “per sempre”.
E così il tempo si dilata, sfugge
alla proporzione umana che può solo ragionare di giorni, settimane, o anni, e
diventa un secolo.
E la descrizione di come tutta la
corte si addormenta assieme a Rosaspina permette proprio il passaggio tra il
veloce crescere della bambina (si punge a 15 anni) e il lento germogliare dei
rovi intorno al castello:
“Non appena
ebbe sfiorato il fuso l’incantesimo si compì e lei si punse un dito. Come sentì
la puntura cadde su un letto che si trovava in quella stanza e sprofondò in un
sonno profondo. Quello stesso sonno si diffuse in tutto il castello, il re e la
regina che erano appena rientrati quando raggiunsero la sala del trono caddero
a terra addormentati, e con loro tutta la corte. E s’addormentarono i cavalli
nella stalla, i cani nel cortile, le colombe sul tetto, le mosche sulle pareti,
persino il fuoco che crepitava nel focolare si zittì e s’addormentò e l’arrosto
smise di sfrigolare e il cuoco, che aveva afferrato lo sguattero e gli voleva
dare una sberla perché ne aveva combinata una delle sue, lo lasciò andare e si
addormentò. Il vento si addormentò e sugli alberi accanto al castello fu solo
silenzio. Attorno al castello crebbe un roveto che diventava ogni giorno più
fitto e alto e che alla fine circondò il castello e lo ricoprì tutto, tanto da
farlo sparire alla vista di tutti. Non si vedeva più nemmeno la bandiera sulla
torre più alta. Nel paese si sparse la leggenda di Rosaspina, come veniva
chiamata la bella principessa addormentata, e di tanto in tanto veniva qualche
figlio di re che voleva penetrare nel roveto. Ma nessuno di loro riusciva a
penetrarvi perché le spine li trattenevano come fossero mani adunche ed essi si
impigliavano in quelle spine e lì morivano miseramente”.
Mentre Rosaspina dorme, tutto il
mondo fuori dal suo castello continua a vivere, non si arresta: ed ecco quindi
un altro riferimento al tempo.
Il tempo di Rosaspina non è mai
quello delle altre persone: è un tempo interiore, che si scontra con quello
esterno, di chi la circonda.
E’ piccola tra tanti adulti,
cresce alla svelta e a 15 anni incontra una nonnina che fila, e con quel fuso
si punge, cade addormentata e così per lei il tempo si arresta mentre tutto, al
di fuori del castello, va avanti.
Per la mia Rosaspina ho quindi
pensato ad una ragazza che vive chiusa in casa, volontariamente, a causa di una
depressione che non sa riconoscere e dalla quale non sa come uscire; il sonno
dei cento anni è diventato per me una delle malattie più diffuse nel mondo di
oggi.
Fuori dal suo monolocale, il
tempo degli altri scorre come sempre: le finestre della sua stanza, un
seminterrato, le mostrano i piedi delle persone che vanno avanti e indietro,
senza fermarsi, senza indecisioni.
Ma Rosaspina non è sola nel suo
sonno. Tutta la corte dorme con lei.
E così, ho affollato la sua
stanzetta di tanti personaggi, tante voci, che la consigliano giorno e notte su
cosa fare e cosa non fare: i personaggi, nel mio adattamento, sono altri
protagonisti delle fiabe (Cappuccetto Rosso, il Lupo Cattivo, Cenerentola,
Pollicino…), perché le fiabe non fanno altro che darci consigli, avvertimenti,
suggerimenti.
In tutto questo risuonare di
voci, Rosaspina continua a stare nel suo letto, a rivendicare la volontà di
vivere il proprio tempo senza doverlo
per forza adeguare a quello degli altri: non sa cosa ha, ne’ perché sente
questo malessere.
Sente solo di essersi “rotta”.
“Io non lo so perché la gente si
rompe. Non so perché la gente non si rompe.
È più facile rompersi che
rimanere interi, trasparenti, compatti.
E’ normale guardare le scarpe
delle persone? Mi stupisco che nessuno lo faccia!
Le scarpe sono decise, vanno di
qua e di là, inciampano di rado, si scontrano ancora di meno. Le scarpe non si rompono mentre a me sembra che
tutto il resto sia rotto.
E’
normale questo? Importa, che sia normale?”
Se Rosaspina non sa cosa c’è che
non vada in lei, è il Lupo Cattivo (l’istinto, l’animalità) a descriverle la
sua esatta condizione:
C’era un
tempo, quando il tempo non c’era,
che
tutti aspettavano che iniziasse, il tempo!
Ma
non c’erano orologi, per misurarlo,
ne’
clessidre per ingabbiarlo.
“Ma
cosa l’aspettate a fare, il tempo? “ diceva la piccola Rosaspina.
“Nel
frattempo che lo aspettate, perdete tempo!”, diceva la saggia bambina.
E
così, mentre tutti erano fermi ad aspettare,
solo
lei decise di cambiare,
e
iniziò a crescere, correre ed imparare,
mentre
tutti gli altri rimanevano il tempo ad aspettare.
Non
c’era tempo da perdere, e lei lo sapeva bene,
e
lo gridava a squarciagola, “state attenti, che fermarvi non vi conviene!”
Ma
anni e anni dopo, Rosaspina si era un po’ stancata,
e
voleva fermarsi, e guardare il mondo ammirata.
“Troppo
tardi- le disse un vecchio- ormai il tempo è partito
e
non c’è modo di frenarlo, corre e corre a perdifiato.
Così
Rosaspina decise di fermarsi, di stare un po’ sola
e
per questo rimane qua, sotto le lenzuola.
Fuori
il mondo va avanti e avanti,
e
lei rimane a guardare le scarpe danzanti.
Non
è altro che questa la tua depressione,
uno
scambio di tempo, con le altre persone.
Ogni fiaba ha il suo principe, e
anche questa ha il suo: l’unico che riesce ad oltrepassare la spessa recinzioni
di roveti, che a lui però paiono fiori.
Non si ferisce passandoci
attraverso; un principe senza spada, dunque.
Nel mio testo il Principe è
quindi un amico di Rosaspina, uno studente di psicologia che ha armi spuntate
per aiutare la sua amica: viene a trovarla regolarmente, ma non fa altro che
farla inquietare di più.
E’ anche lui una delle voci che
abitano il monolocale, una delle voci della testa di Rosaspina.
E’ la voce che la spinge ad
uscire, a riprendere il normale corso del tempo.
Rosaspina infatti si sveglia da
sola, il bacio non è che un pretesto.
Erano finiti i cento anni, tutto
lì.
Purtroppo però, la mia Rosaspina
non sa che il tempo della sua depressione, in un modo o nell’altro sta per
finire, e anche quando finalmente decide di mettersi le scarpe e magari uscire,
esita, si guarda intorno, cerca aiuto da quelle voci che ormai l’hanno
abbandonata.
Si sveglierà? Toglierà le scarpe
e si metterà di nuovo a letto? E’ solo una questione di tempo?
Il mio adattamento della fiaba
dei Grimm, Valzer di Spina, si
conclude quindi con il grido della protagonista, forse spaventata dall’idea di
uscire, di “svegliarsi” e di
riprendere la sua vita “normale”.
D’altronde, le favole si
concludono sempre con “e vissero felici e contenti”.
Come, non si sa.
Sarà la vita, o il teatro, a
dirlo…
Il teatro dei non attori.
L’esperienza formativa del teatro
di frontiera.
Nel teatro dei non attori si gioca a “fare il teatro”:
ci si incontra una volta alla settimana, o tutti i giorni, se si è vicini allo
spettacolo. Si provano mille volte azioni, battute, gesti, motivazioni,
emozioni…la sera, dopo il lavoro, o lo studio, o la domenica, rinunciando a
pranzi in famiglia o visite ai fidanzati.
Per due o tre ore si diventa attori, sapendo sempre di non esserlo, è
chiaro: si abbandonano pudori e insicurezze, ci si cambia d’abito e di
cappello, e si va in scena.
Questo è il mio “teatro di
frontiera”, una definizione un po’altisonante che rende l’idea di limite e allo stesso tempo di scoperta che è propria del teatro fatto
nei piccoli palcoscenici della Toscana: qui ogni paesino ha in un granaio, in una
vecchia chiesa sconsacrata, o magari in una sala comunale, il proprio teatro.
Il limite, la frontiera, è innanzitutto fisico: teatri piccoli, difficili
da raggiungere, pochi spettatori (anche quando la sala è piena!), pochi soldi
per allestire uno spettacolo, poca, o del tutto inesistente, copertura
mediatica degli eventi.
Ma esiste anche un limite
impalpabile, non tangibile, ma ben evidente: la diffidenza, il sospetto verso
tutto ciò che è troppo nuovo, che sappia di ricerca, che non sia immediatamente
divertente.
Eppure.
Eppure, lavorando a fondo sul
pubblico e sui testi da allestire, sugli spettacoli, aspettando sulla porta chi
sai che doveva venire, anche a costo di far iniziare lo spettacolo più tardi…
qualcosa cambia, e nascono i non attori:
ragazzi o persone mature che amano il teatro, lo frequentano, dapprima, e poi
lo vivono in prima persona.
Di questa passione quasi nessuno
fa un lavoro, anche se alcuni ne avrebbero la capacità: anche questa è frontiera,
limite tra il “lavoro vero” e quello che fai per divertirti, anche se di questi
tempi di “lavoro vero” ce n’è poco, e magari si sopravvive proprio grazie alla
creatività, e al divertimento, se costruttivo.
Ed ecco la scoperta, l’inaspettato, che coglie chi sta in piedi sulla linea di
confine, sulla frontiera appunto: i laboratori di teatro sono sempre più
frequentati, e il pubblico sensibilmente aumenta, e sopporta anche testi
difficili, di autori molto conosciuti, ma magari per testi più famosi e accessibili,
oppure di autori del tutto sconosciuti, che scrivono sugli attori che si
trovano davanti.
Io sono una di questi.
Come regista, ho potuto lavorare
su testi di Agota Kristof, Friedrich Dürrenmatt, Slawomir Mrozek, David Mamet,
e verificare come le loro parole colpiscano il pubblico in maniera inaspettata,
e personale, diretta.
Come autrice, ho potuto provare
direttamente l’efficacia delle mie parole dette dall’attore, o meglio, dal non attore: e soprattutto le ho
immaginate, già sulla carta, nel momento in cui sarebbero state dette.
Questo è uno dei vantaggi dello
scrivere i testi delle piéces che vengono
allestite durante i laboratori: una volta scelto l’argomento, il tema da
trattare, lo si affida a chi si ha davanti, lo si mette in prova, lo si declina
secondo personaggi che già esistono e ragionano per conto proprio. Bisogna solo
sorvegliare che il corso degli eventi non sfugga di mano.
Ho parlato dell’adolescenza come
periodo di attesa di un futuro in cui realizzare sogni d’amore, una passione, o
un lavoro, semplicemente facendo sedere delle ragazze sul proscenio, di fronte
ad una porta da varcare, inevitabilmente, quando chiamate: in questo
spettacolo, Itaca, nessuna delle protagoniste sapeva perché era
stata chiamata, ne’ da chi.
Aspettava, solamente. E insieme
alle altre, cercava di dare un senso a questo periodo di attesa.
Ho preso in prestito il
protagonista de Il barone rampante di
Italo Calvino per spiegare la ferrea determinazione di chi, oggi, decide di non allinearsi a ciò che lo
circonda, e propone un proprio modo di vivere: non era un caso, credo, che
proprio mentre allestivamo questo spettacolo, La rivoluzione di duemetri, in Italia studenti e operai salivano
sui tetti per protesta, proprio come Cosimo, barone di Rondò.
Ho infine affrontato il tema del
suicidio in un paesino dove, curiosamente, il tasso dei suicidi è superiore
alla media nazionale, senza che nessuno si sia domandato il perché, dato che
motivi apparenti non ce ne sono: i non
attori che hanno recitato in questa
commedia (perché di commedia si tratta!) durante le prove si sono chiesti il
motivo di questo strano primato, e lo stesso ha fatto chi, abitante del paese,
quella commedia l'ha vista.
D’altro canto, sta proprio qui,
secondo me, l’esperienza formativa di simili laboratori teatrali, che si
rivolgono a chi non vuole diventare attore, ma vuole solo affinare la propria
capacità naturale per esprimere sulla scena emozioni e interrogativi altrimenti
rimasti inespressi.
Tutto ciò che sta sul
palcoscenico è messo sotto una lente d’ingrandimento, non solo dal pubblico, ma
anche dall’attore: la parola detta
risuona nella testa di chi la dice e di chi la ascolta, e il gesto che
l'accompagna la sottolinea, rendendola più comprensibile, e chiara.
Il teatro diventa quindi un luogo
privilegiato per "mettere alla prova" la realtà esterna, la relazione
del singolo con la società, o le sensazioni e le domande più intime e
esistenziali: allestire uno spettacolo richiede mesi di lavoro, e in questo
periodo si ha il tempo di mettersi di fronte a queste tematiche, tempo che i non attori si ritagliano dalla propria vita privata,
fatta di lavoro, studio, famiglia.
Il tempo per pensare, e farlo
confrontandosi con gli altri: questo, in tempi di serate passate da soli
davanti alla televisione, è secondo me
il dono che questo "fare teatro" porta ai
non attori.
in ricordo di
Alpo
Il teatro e l'impegno
“Un saggio orientale chiedeva
sempre, nelle sue preghiere, che la divinità volesse risparmiargli di vivere
un’epoca interessante.
Poiché noi non siamo saggi, la
divinità non ci ha risparmiato e viviamo un’epoca interessante che non ammette
in ogni caso che ci si possa disinteressare di essa. Gli scrittori di oggi lo
sanno.
Se parlano, eccoli criticati ed
attaccati. Se, divenuti modesti, tacciono, non si parlerà più che del loro
silenzio, per rimproverarglielo clamorosamente.
In mezzo a questo baccano lo
scrittore non può sperare più di tenersi in disparte per seguire le riflessioni
e le immagini che gli sono care. Fino ad oggi, bene o male, l’astensione è
stata sempre possibile nella storia: chi non approvava poteva spesso tacere o
parlare d’altro.
Oggi tutto è cambiato, lo stesso
silenzio assume un significato indubbio.
Da momento in cui la stessa
astensione è considerata una scelta, punita o lodata come tale, l’artista, lo
voglia o no, è “imbarcato” e dico “imbarcato” perché mi sembra più giusto che
“impegnato”. Poiché non si tratta per l’artista di un impegno volontario ma
piuttosto di un servizio militare obbligatorio. Ogni artista oggi è imbarcato
nella galera del suo tempo e deve rassegnarvisi, anche se ritiene che la galera
ha sentore equivoco, che i capiciurma sono veramente troppi e che, per giunta,
la rotta non è quella buona. Siamo in alto mare. L’artista, come gli altri,
deve remare a sua volta, senza morire, se è possibile, cioè continuando a
vivere e a creare.”
(Albert
Camus, dalla Conferenza del 14 Dicembre 1957, intitolata L’artista e il suo tempo, pronunciata nell’Università di Upsala,
Svezia).
Basterebbero queste poche righe
per spiegare quello che secondo me è il ruolo dell’artista, e quindi del drammaturgo,
del regista, dell’uomo di teatro rispetto al suo tempo.
Ma per non lasciare queste parole
nella pura astrazione letteraria alla quale vengono confinate, se lette solo
con gli occhi, e non dette ad alta voce, come avviene appunto sul palcoscenico,
o avvenne durante la conferenza in cui vennero pronunciate, vorrei renderle
vive con un esempio pratico, a me molto caro.
Il primo modello di teatro calato
nella contemporaneità, e nella società che lo circonda, l’ho incontrato non
lontano dal posto dove vivo io, in un paesino della Val d’Orcia, chiamato
Monticchiello, un posto speciale, dove tutto il paese ogni estate va in scena,
dal 1967.
Questo di per sé non è affatto
speciale, in molti paesi italiani ci sono longeve compagnie amatoriali di livello,
in cui recitano attori che non hanno niente da invidiare ai professionisti; la
particolarità di Monticchiello è però in
quello che viene messo in scena, cioè la propria storia, la propria vita, le
riflessioni su cosa accade e accadrà, in quello che è stato definito da Giorgio
Strehler un
autodramma[1].
A livello pratico, l’autodramma è
nato dal confronto del gruppo degli attori, gli abitanti del borgo, con un provocatore, non un semplice scrittore
di testi teatrali, o una figura che raccolga le storie, o le memorie, ma un
operatore culturale che si pone come voce
interrogante: in risposta a tale figura, l’intero paese si riunisce,
durante l’inverno, per discutere il testo da mettere in scena, le tematiche, i
personaggi, cosa dire, insomma.
Da questo confronto, talvolta
anche molto acceso, poiché i temi trattati sono sempre molto vicini alla
quotidianità, e per questo problematici, nasce dapprima un canovaccio, e poi un testo vero e proprio, che viene recitato per
circa un mese, durante l'estate, nella piazza del borgo.
Nasce così, nel 1969
,
il Teatro Povero di Monticchiello, un palco privilegiato dal quale parlare a
migliaia di spettatori di ciò che accade in Italia e nel mondo, partendo da
fatti quotidiani di un piccolo paese di neanche 300 persone, e da specifici
eventi storici che ne hanno segnato la memoria; infatti, da più di quarant’anni
i testi messi in scena ruotano intorno a un episodio drammatico della
resistenza partigiana, quando i monticchiellesi furono messi al muro, e fatti
rimanere per alcune ore sospesi in attesa dell’esecuzione (che per fortuna non
avvenne).
Questa è appunto la tematica del
primo spettacolo definito autodramma, “Quel 6 aprile del '44”, ma questo
evento viene riproposto più volte nei testi successivi, quasi a significare un
punto di partenza imprescindibile, da rivivere, ridiscutere e contestualizzare.
Si parte quindi dalla memoria di
ciò che avvenne, per arrivare poi a
parlare della contingenza, della crisi economica e morale, dell'incertezza del
futuro, dei problemi lavorativi delle nuove generazioni, del rapporto dell'uomo
con l'ambiente...
La ritualità del Teatro Povero è
rimasta inalterata in tutti questi anni, anche se sono cambiati i modelli
narrativi e le modalità della messa in scena, e anche il gruppo degli attori
che si autonarrano è nel tempo
cambiato, sebbene alcuni vadano ancora in scena, e siano ormai riconoscibili
come gli “attori di Monticchiello”; il problema del rinnovamento della
Compagnia, e dell’opportunità della fine di questa esperienza si è posto molte
volte, negli ultimi anni, e persino di questo se n’è fatto spettacolo, trovando
nel mezzo teatrale la cura ai suoi stessi mali, primo fra tutti la
ripetitività.
A Monticchiello la memoria
storica è veramente linfa vitale per tutto ciò che viene detto di nuovo, è
prospettiva imprescindibile per guardare alla contemporaneità; negli anni è
stata anche fardello scomodo e pesante, ma comunque presente, e, a suo modo,
interrogatrice implacabile dello svolgersi quotidiano della realtà.
Il caso di Monticchiello, il fare teatro che nasce da un'esigenza
reale di comunicazione e di confronto, rappresenta bene secondo me quest'essere
imbarcati nella galera del proprio
tempo di cui parla Camus, cogliendo
perfettamente la sensazione di spaesamento che prende ogni volta che si lascia
la terra ferma per navigare verso un orizzonte non ancora rivelato.
È proprio questa sensazione di
incertezza verso il futuro che ci richiama alla memoria, all'impegno e alla
responsabilità, dandoci la chiave di interpretazione di ciò che ci circonda e
che ci aspetta: il passato diventa vitale quando viene continuamente
interrogato e posto a confronto con ciò che ne è nato, con le conseguenze
storiche, sociali ed economiche che ne sono derivate.
Non è un caso se sempre più
spesso per interpretare quello che sta accadendo oggi nel mondo si fa
riferimento alla crisi del ’29, e si cerchino con essa similitudini, e
differenze: non è un semplice esercizio di confronto, ma un modo per capire
quale sia la direzione da prendere.
In questo contesto, il ruolo del
drammaturgo, di chi può parlare attraverso la propria arte ad un pubblico, e da
un palcoscenico esprimere le proprie idee, diventa cruciale: si ha infatti la
possibilità di condividere con chi ti ascolta parole ed immagini, ed attraverso
queste sviluppare concetti, richiamare ricordi, proporre vie di fuga, possibili
strade alternative, e forse anche soluzioni.
Il mezzo teatrale è molto potente,
perché il pubblico al quale si rivolge è già disposto ad abbandonare il ritmo
quotidiano per dedicare del tempo
alla visione di uno spettacolo: bisogna partire prima, comprare un biglietto,
attendere l’aprirsi del sipario…
Il pubblico è quindi già sbilanciato verso il palcoscenico: un libro puoi aprirlo
quando e dove vuoi, uno spettacolo devi andare
a vederlo.
E’ un rito collettivo, induce al
confronto, alla circolazione delle idee, delle proposte, e, a differenza di un
film proiettato in un cinema, la presenza dal
vivo degli attori porta naturalmente alla partecipazione emotiva, all’
identificazione, all’ interrogazione (perché
questo personaggio sta dicendo questo? Potrebbe decidere di dire o fare
altrimenti!).
Questa opportunità di parlare, e
di essere ascoltati, raggiunge la sua forza più grande quando la voce che
prende vita viene dal passato, anche recente, e interroga direttamente il
nostro presente: la memoria veste i costumi di un personaggio, e si mostra agli
occhi di tutti, rivelandosi immediatamente reale,
diventando così strumento prezioso per l’analisi del proprio tempo,
togliendosi di dosso la polvere degli anni trascorsi.
La parola
detta, non scritta, è l’essenza del teatro: è quindi naturale che
il tempo faccia parte del lavoro del drammaturgo, il tempo storico, il tempo
sociale, il tempo passato e il tempo presente, il tutto racchiuso dal tempo di
una messa in scena e dallo spazio di un palcoscenico
.

[3] Ciò non impedisce naturalmente che alcune opere siano
considerate dei classici, e che risultino attuali anche a distanza di secoli:
il richiamo a valori universali, storie archetipe e condivise permette loro di
rivolgersi indistintamente all'uomo moderno come all'abitante dell'Atene del V
sec.
Lo stato d'assedio della crisi
A cento anni dalla nascita di
Albert Camus, la figura dello scrittore francese, algerino di nascita, rimane
ancora in ombra rispetto a quelli che vengono considerati i “grandi” della
letteratura europea contemporanea.
Le motivazioni possono essere
molteplici, non ultima la sua difficile “classificabilità”: fu giornalista,
drammaturgo e attore, regista, scrittore di saggi filosofici (L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo tra tutti) e di romanzi (La peste e Lo straniero,
i più conosciuti), personaggio complesso e scomodo (si ricordi la querelle con Sartre).
Un intellettuale a tutto tondo,
che però nemmeno l’assegnazione del Premio Nobel del 1957 ha salvato dall’essere prematuramente e
immeritatamente dimenticato.
Come drammaturgo, la sua
produzione si riduce a sole quattro piéces,
raramente messe in scena in Francia, quasi ignorate in Italia: Il malinteso (1944), Caligola (1945), Lo stato
d’assedio (1948) e I giusti (1949).
Recentemente, la rivista
Hystrio ha dedicato ad Albert Camus un
articolo nel quale si percorre la fortuna (o piuttosto sfortuna) delle sue
opere teatrali, essendo state messe in scena in Italia solo in poche occasioni,
e quasi mai di recente
:
indagando le cause del difficile rapporto tra Camus e il pubblico teatrale (in
alcuni casi furono dei fiaschi anche gli allestimenti che curava egli stesso
dei suoi lavori, per primo
Lo stato
d’assedio), la prima è, a mio avviso, da ricercarsi nella scrittura.
I testi camusiani sono densi,
carichi di concetti filosofici, politici e anche metafisici, più facilmente
leggibili che non dicibili: l’azione viene ridotta al minimo, e, anche quando è
al centro della piéce, come ne I giusti, viene raccontata, più che
agita.
Non che il palcoscenico non sia
luogo di profonda analisi esistenziale o politica, anzi; ma la battuta detta
dall’attore vive nel breve spazio tra sipario e platea, e deve essere subito
chiara, esatta, per poter entrare nella testa e nel cuore del pubblico: l’idea,
in scena, è sempre detta da un uomo, e perciò deve potersi incarnare, senza
rimanere sospesa in aria.
Ad esempio, il dramma tutto umano
del giovane imperatore romano, nel
Caligola
(“Gli uomini muoiono, e non sono felici”) lo pone molto vicino al pubblico, e
sebbene la
piéce abbia alla base concetti
filosofici molto complessi, gli stessi che ritroviamo ne
Il mito di Sisifo, questi vengono espressi con concretezza, e
vissuti in prima persona dal protagonista
.
Tutt’altro discorso va fatto per Lo stato d’assedio, rappresentato da
Camus nell’ottobre del 1948, utilizzando la scenotecnica più all’avanguardia,
alla maniera di Piscator : lo spettacolo
fu un clamoroso fiasco, di pubblico e di critica, anche se a dieci anni di
distanza, una compagnia teatrale di
algerini lo replicò con successo.
Secondo alcuni critici le cause
del fallimento vanno cercate nei
contenuti piuttosto che nella sola forma,
prima fra tutte la totale mancanza di suspence della piéce, essendo il sacrificio del protagonista fin
dall'inizio in qualche modo preannunciato: ma è anche l'ambiguità della figura
della Peste, personaggio vestito da militare che irrompe nella cittadina di
Cadice per regnare incontrastata sui suoi abitanti, che può aver disorientato
il pubblico.
Metafora del totalitarismo che
dis-umanizza e sconvolge l'apparente tranquillità della cittadina, la Peste
scardina l’abitudine del “niente è successo, niente succederà” (le regole del
Governatore) e con la sua sola presenza
impone una risposta, sia essa passiva (gli abitanti di Cadice che in massa si
adattano alle nuove norme e regole) che attiva (Diego, che forte del suo senso
di libertà e dell'amore tutto umano per
Vittoria, si pone a capo della rivolta): pur totalmente negativo, quindi, il
personaggio della Peste provoca una sorta di risveglio delle coscienze,
mettendo di fronte alla realtà chi prima si adattava e abbassava la testa.
Una tale lettura era forse troppo
complessa a ridosso della fine della guerra, quando la netta divisione tra
vinti e vincitori, cattivi e buoni, era necessaria per sanare le ferite della
coscienza e per ricostruire l'ordine: non era forse tempo per le ombreggiature,
le sfumature, nei personaggi quanto negli uomini.
E' quindi adesso il tempo per una
nuova messainscena?
Volendo dare una risposta a
questo interrogativo, ho recentemente lavorato ad una riduzione de Lo stato
d'assedio e dato nuova voce alla Peste, a Diego e a tutti i personaggi di
Cadice: in fase di riscrittura ho cercato di snellire il testo e dare un ritmo
più incalzante alle battute, proponendo
ai miei non attori (vedi articolo Il
teatro dei non attori) l'opera di Camus come metafora dell’attuale
situazione di crisi economica e morale.
L'accoglienza è stata
sorprendente: tolti i panni militari, con una ventiquattrore in mano e una
giacca di ottimo taglio, la Peste è diventata simbolo della finanza e dell'alta
economia che tutto schiaccia e tutto comanda, e non è fuori luogo, purtroppo,
anche la Segretaria (la morte), che elimina coloro che non rientrano più nelle
statistiche, chi non fa più parte del meccanismo, chi non si adatta.
In questa prospettiva, viene
visto sotto una nuova luce anche l'apparato burocratico che viene instaurato
dalla Peste, le inutili attività che vengono imposte ai cittadini, le
lungaggini e le ridicole norme che
costellano la loro nuova vita: il grido “Date il via ai grandi lavori
inutili” che apre il secondo atto ha risuonato nelle orecchie degli attori e
del pubblico indicando lo specchio di una società che si affanna a fare senza
costrutto, a costruire senza consolidare, a comprare ciò che inutilmente si
possiede.
Il personaggio che più ha colpito
pubblico e non attori è, assieme al protagonista Diego, il nichilista
Nada: il non allineato che vorrebbe smuovere tutto, che vorrebbe che tutto
cambiasse in opposizione all'immobilismo proposto dal Governatore di Cadice, e
che, all'arrivo della Peste, si mette al servizio della burocrazia, perché “Con
un nome simile dobbiamo lavorare insieme!” (Segretaria,
II parte).
Il monologo finale di Nada,
espressione del disincanto e dell'amarezza per un mondo che non vuole cambiare,
e per un popolo che non vuole vedere, dà voce a uno degli atteggiamenti più
comuni nel momento attuale, che, a fronte dell'entrata in crisi dell'intero
sistema economico mondiale, vede riaffacciarsi le stesse modalità di governo,
di commercio e di speculazione finanziaria: “Eccoli! Arrivano gli anziani,
quelli di prima, quelli di sempre, gli impietrati, gli ottimisti, gli agiati, i
senza uscita, i rileccati, tutta la tradizione seduta, prospera e ben rasata.
Eccoli i sartorelli del nulla: sarete vestiti tutti su misura. Ma non vi
allarmate: il loro metodo è il migliore. Invece di chiudere la bocca a chi
grida la sua sventura, si chiudono le orecchie. Eravamo muti, diventeremo
sordi.
Attenzione: ritornano quelli che
scrivono la Storia. Ricominciamo a
curarci degli eroi. (…) Sì, ricomincerete, ma non è più affar mio. (…) Addio,
brava gente: un giorno imparerete che non si può vivere bene, sapendo che
l'uomo è nulla e che il volto di Dio è tremendo.”
L'atteggiamento di Diego, l’eroe
che sacrifica la sua vita per amore di Vittoria e per la popolazione di Cadice,
è quello di chi non si piega, già sapendo che il proprio destino è la
sconfitta: eroe tragico per eccellenza, Diego sfida la morte in un bellissimo
dialogo in cui fa appello alla disordinata umanità che non vuole farsi numero,
alla bellezza tutta umana che non può mettersi nei ranghi: e uomo in rivolta vince, pegno la propria
vita, la Peste, ricacciandola per un po’ ai margini della cittadina.
Una rivolta che nasce dal basso,
da coloro che sanno di non avere altro che la propria dignità di uomini e donne
su cui far leva: la situazione attuale si è specchiata nella messainscena e gli
ingranaggi del totalitarismo politico sono diventati, altrettanto schiaccianti,
quelli della globalizzazione economica.
Questo è stato subito chiaro,
tanto al pubblico quanto agli attori, o meglio, ai non attori: ed è proprio per loro che ho scelto questo testo,
prendendolo in prestito da chi certo non immaginava una Peste in giacca e
cravatta, avendo negli occhi le immagini di ben altri pericoli, con medaglie
appuntate al petto, a guardare ridicole parate militari.
Ma adesso la minaccia non ha
medaglie per farsi riconoscere, e allora ho pensato che fosse giusto
accostarla, sul palcoscenico, idealmente, a chi abbiamo imparato a riconoscere
come “l’uomo cattivo”, il dittatore, il prevaricatore… poco importa se adesso
in mano ha un computer portatile e in testa un taglio di capelli alla moda: il
pubblico si è immedesimato negli abitanti di Cadice, e non si è fatto
ingannare, apprezzando l'allestimento proposto.
Se quindi la grandezza dei
classici sta nella prova del Tempo, ritengo che Camus possa rientrare tra
quanti hanno saputo fermare nella propria opera le vicende immutabili
dell'umanità, riuscendo, nel ritrarre le fosche tinte della società che lo
circondava, a parlare anche alle generazioni future.
Purtroppo.
(articoli pubblicati sulla rivista BAT e su COSMOPOLIS)
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