dramatis persona

Laura Fatini vive e lavora in Toscana.

Studia all’Università di Perugia, dove si diploma in filosofia politica, con una tesi sul teatro politico di Camus.

A 17 anni conosce Carlo Pasquini, regista che lavora per il Cantiere Internazionale d’arte di Montepulciano (Si) e diventa la sua assistente.

Frequenta corsi e laboratori inerenti alla pratica teatrale: scrittura teatrale con Ugo Chiti, danza con Grazia Galante e Giorgio Rossi, regia con Beppe de Tomasi, illuminotecnica con Salvatore Mancinelli.

Parallelamente collabora con i giornalisti Angela Levi Bianchini e Guido Ceronetti, per il quale disegna le illustrazioni del libro “Ti saluto, mio secolo crudele” (Einaudi, 2011).

Fa parte della Nuova Accademia Arrischianti di Sarteano, e ha collaborato alla fondazione della Compagnia dell'orto del Merlo di Cetona.

Dirige laboratori di teatro, per adulti e bambini, e lavora con compagnie amatoriali e professionali.

Un suo testo teatrale, Itaca, è stato pubblicato sulla rivista Cosmopolis (n.2- 2008).

Collabora con la rivista francese on line BAT, nella quale è possibile trovare alcuni suoi articoli.

Nel 2014 è stata chiamata, insieme a Carlo Pasquini e Gabriele Valentini, a formare la Compagnia del Festival per il Festival Orizzonti d'Arte di Chiusi (Si).

Nel marzo 2015 il suo testo Emily viene selezionato per il concorso UNO- festival di monologhi teatrali di Firenze, dove vince il primo premio come migliore testo originale; a luglio 2015 il testo viene inserito nel progetto Città e debutta a Barcellona, insieme a due testi della regista e drammaturga catalana Angels Aymar. Ad aprile 2016 Emily debutta in Francia , Le Beausset e a La Seyne su Mer.

Cura l'introduzione, assieme al prof. Vincenzo Sorrentino, dell'edizione italiana di alcuni testi del drammaturgo e attore francese Jean-Pierre Thiercelin: il libro "Puzzle Memoire. Dall'inferno alla luna" viene pubblicato per Morlacchi Editore nella primavera 2016.
Ad agosto 2016 partecipa, in qualità di tutor, a "The Complete Freedom of Truth" , un progetto internazionale che intende promuovere la cooperazione, l'integrazione e le politiche giovanili attraverso le arti: per TCFT dirige per 2 settimane un laboratorio teatrale a Bournemouth (UK) e collabora con l'artista Benji Reid e i registi Raoul Cordea e Petru Ionesco.

link

thecompletefreedomoftruth.com/artists-facilitators/laura

arrischianti.it

i miei articoli


Il teatro e le fiabe

1. Rosaspina



Le fiabe hanno da sempre fornito molto materiale per il teatro.

Anche tralasciando le interpretazioni psicoanalitiche[1], che fanno delle fiabe un esempio di narrazione al servizio della formazione dell'individuo e della società (obiettivo non esclusivo, ma sicuramente centrale del teatro), il loro contenuto magico, la lotta tra il bene e il male, la varietà dei personaggi, fanno di queste storie un inesauribile archivio cui far riferimento per la messa in scena.

Ma è innanzitutto la caratteristica principale delle fiabe, il loro essere raccontate prima ancora che lette, che le rende molto vicine al teatro, che trasforma in un palcoscenico anche  le quattro mura di una cameretta di bambini: le fiabe si dicono, si recitano, si tramandano da una generazione all’altra attraverso la parola detta, piuttosto che scritta.
Le fiabe hanno mille personaggi con mille voci, ed anche il più inesperto dei genitori si improvvisa attore per fare la voce del Lupo Cattivo che mangia Cappuccetto Rosso.

Il recente anniversario della pubblicazione delle fiabe raccolte dai fratelli Grimm (200 anni nel 2012) ha posto, se possibile, ancora più attenzione al tema fiabesco, sia nelle produzioni televisive (la fiction americana Once Upon A Time, ad esempio) che nelle rivisitazioni cinematografiche per  bambini e per adulti, che negli allestimenti teatrali (La bella Rosaspina addormentata di Emma Dante, per citarne uno).

Mi è capitato, recentemente, nel mio lavoro di drammaturga e regista, di lavorare su alcuni testi derivanti in qualche modo dalle fiabe: la motivazione scatenante è stato proprio l’anniversario dei Grimm, che mi ha fatto capitare quasi per caso tra le mani il libro che conteneva le loro fiabe.

La lettura fatta con occhi da adulta mi ha rivelato la loro capacità di parlare del presente e nel presente, la possibilità di effettuare numerosi paralleli con la realtà che mi circonda, una volta tolto il velo magico e favolistico che rende le fiabe così preziose alle orecchie dei bambini.
Le fiabe, infatti, come tutti i testi classici, si adattano con facilità ai differenti periodi storici e i loro insegnamenti (se di questi si può parlare) sono validi nei diversi momenti della vita dell’uomo: il loro nucleo centrale rimane intatto ed immutato, seppure luoghi, tempi e circostanze mutino di volta in volta e così facendo riescono ad essere sempre contemporanee.

Il mio lavoro sulle fiabe è iniziato con Rosaspina, da tutti conosciuta come La bella addormentata.
Centrale, per tutta la fiaba,  mi è sembrata la tematica del tempo: all’inizio, quando la fata che non era stata invitata alla festa decide di vendicarsi,  la maledizione che essa pronuncia viene “attenuata” da una fata che ancora non aveva dato il suo dono alla piccola.
Un anticipo di tempo, da parte della fata cattiva, che pregiudica il risultato che voleva ottenere: Rosaspina non morirà, quando si pungerà con un fuso, ma dormirà, per cento anni.

Cento anni, per un uomo, e per i bambini che ascoltano la fiaba, sono un periodo di tempo lunghissimo, è come dire “per sempre”.


E così il tempo si dilata, sfugge alla proporzione umana che può solo ragionare di giorni, settimane, o anni, e diventa un secolo.
E la descrizione di come tutta la corte si addormenta assieme a Rosaspina permette proprio il passaggio tra il veloce crescere della bambina (si punge a 15 anni) e il lento germogliare dei rovi intorno al castello:

“Non appena ebbe sfiorato il fuso l’incantesimo si compì e lei si punse un dito. Come sentì la puntura cadde su un letto che si trovava in quella stanza e sprofondò in un sonno profondo. Quello stesso sonno si diffuse in tutto il castello, il re e la regina che erano appena rientrati quando raggiunsero la sala del trono caddero a terra addormentati, e con loro tutta la corte. E s’addormentarono i cavalli nella stalla, i cani nel cortile, le colombe sul tetto, le mosche sulle pareti, persino il fuoco che crepitava nel focolare si zittì e s’addormentò e l’arrosto smise di sfrigolare e il cuoco, che aveva afferrato lo sguattero e gli voleva dare una sberla perché ne aveva combinata una delle sue, lo lasciò andare e si addormentò. Il vento si addormentò e sugli alberi accanto al castello fu solo silenzio. Attorno al castello crebbe un roveto che diventava ogni giorno più fitto e alto e che alla fine circondò il castello e lo ricoprì tutto, tanto da farlo sparire alla vista di tutti. Non si vedeva più nemmeno la bandiera sulla torre più alta. Nel paese si sparse la leggenda di Rosaspina, come veniva chiamata la bella principessa addormentata, e di tanto in tanto veniva qualche figlio di re che voleva penetrare nel roveto. Ma nessuno di loro riusciva a penetrarvi perché le spine li trattenevano come fossero mani adunche ed essi si impigliavano in quelle spine e lì morivano miseramente”.[2]

Mentre Rosaspina dorme, tutto il mondo fuori dal suo castello continua a vivere, non si arresta: ed ecco quindi un altro riferimento al tempo.
Il tempo di Rosaspina non è mai quello delle altre persone: è un tempo interiore, che si scontra con quello esterno, di chi la circonda.
E’ piccola tra tanti adulti, cresce alla svelta e a 15 anni incontra una nonnina che fila, e con quel fuso si punge, cade addormentata e così per lei il tempo si arresta mentre tutto, al di fuori del castello, va avanti.

Per la mia Rosaspina ho quindi pensato ad una ragazza che vive chiusa in casa, volontariamente, a causa di una depressione che non sa riconoscere e dalla quale non sa come uscire; il sonno dei cento anni è diventato per me una delle malattie più diffuse nel mondo di oggi.
Fuori dal suo monolocale, il tempo degli altri scorre come sempre: le finestre della sua stanza, un seminterrato, le mostrano i piedi delle persone che vanno avanti e indietro, senza fermarsi, senza indecisioni.

Ma Rosaspina non è sola nel suo sonno. Tutta la corte dorme con lei.
E così, ho affollato la sua stanzetta di tanti personaggi, tante voci, che la consigliano giorno e notte su cosa fare e cosa non fare: i personaggi, nel mio adattamento, sono altri protagonisti delle fiabe (Cappuccetto Rosso, il Lupo Cattivo, Cenerentola, Pollicino…), perché le fiabe non fanno altro che darci consigli, avvertimenti, suggerimenti.

In tutto questo risuonare di voci, Rosaspina continua a stare nel suo letto, a rivendicare la volontà di vivere il proprio tempo senza doverlo per forza adeguare a quello degli altri: non sa cosa ha, ne’ perché sente questo malessere.

Sente solo di essersi “rotta”.

“Io non lo so perché la gente si rompe. Non so perché la gente non si rompe.
È più facile rompersi che rimanere interi, trasparenti, compatti.
E’ normale guardare le scarpe delle persone? Mi stupisco che nessuno lo faccia!
Le scarpe sono decise, vanno di qua e di là, inciampano di rado, si scontrano ancora di meno. Le scarpe non si rompono mentre a me sembra che tutto il resto sia rotto.
            E’ normale questo? Importa, che sia normale?”[3]

Se Rosaspina non sa cosa c’è che non vada in lei, è il Lupo Cattivo (l’istinto, l’animalità) a descriverle la sua esatta condizione:

C’era un tempo, quando il tempo non c’era,
                        che tutti aspettavano che iniziasse, il tempo!
                        Ma non c’erano orologi, per misurarlo,
                        ne’ clessidre per ingabbiarlo.
                        “Ma cosa l’aspettate a fare, il tempo? “ diceva la piccola Rosaspina.
                        “Nel frattempo che lo aspettate, perdete tempo!”, diceva la saggia bambina.
                        E così, mentre tutti erano fermi ad aspettare,
                        solo lei decise di cambiare,
                        e iniziò a crescere, correre ed imparare,
                        mentre tutti gli altri rimanevano il tempo ad aspettare.
                        Non c’era tempo da perdere, e lei lo sapeva bene,
                        e lo gridava a squarciagola, “state attenti, che fermarvi non vi conviene!”
                        Ma anni e anni dopo, Rosaspina si era un po’ stancata,
                        e voleva fermarsi, e guardare il mondo ammirata.
                        “Troppo tardi- le disse un vecchio- ormai il tempo è partito
                        e non c’è modo di frenarlo, corre e corre a perdifiato.
                        Così Rosaspina decise di fermarsi, di stare un po’ sola
                        e per questo rimane qua, sotto le lenzuola.
                        Fuori il mondo va avanti e avanti,
                        e lei rimane a guardare le scarpe danzanti.
                        Non è altro che questa la tua depressione,
                        uno scambio di tempo, con le altre persone.[4]

Ogni fiaba ha il suo principe, e anche questa ha il suo: l’unico che riesce ad oltrepassare la spessa recinzioni di roveti, che a lui però paiono fiori.
Non si ferisce passandoci attraverso; un principe senza spada, dunque.

Nel mio testo il Principe è quindi un amico di Rosaspina, uno studente di psicologia che ha armi spuntate per aiutare la sua amica: viene a trovarla regolarmente, ma non fa altro che farla inquietare di più.
E’ anche lui una delle voci che abitano il monolocale, una delle voci della testa di Rosaspina.
E’ la voce che la spinge ad uscire, a riprendere il normale corso del tempo.
Rosaspina infatti si sveglia da sola, il bacio non è che un pretesto.
Erano finiti i cento anni, tutto lì.

Purtroppo però, la mia Rosaspina non sa che il tempo della sua depressione, in un modo o nell’altro sta per finire, e anche quando finalmente decide di mettersi le scarpe e magari uscire, esita, si guarda intorno, cerca aiuto da quelle voci che ormai l’hanno abbandonata.

Si sveglierà? Toglierà le scarpe e si metterà di nuovo a letto? E’ solo una questione di tempo?

Il mio adattamento della fiaba dei Grimm, Valzer di Spina, si conclude quindi con il grido della protagonista, forse spaventata dall’idea di uscire, di “svegliarsi” e di riprendere la sua vita “normale”.

D’altronde, le favole si concludono sempre con “e vissero felici e contenti”.
Come, non si sa.
Sarà la vita, o il teatro, a dirlo…




[1] Vedi, ad esempio ma non solo, Bruno Bettelheim e lo studio degli archetipi contenuti nelle fiabe popolari ne Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (tr. it. Andrea D'Anna, The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, 1976); per quanto discussa, la figura di Bettelheim rimane un riferimento per quanto riguarda i suoi studi sulle fiabe.
[2] Grimm, Rosaspina, Einaudi, Torino, 1951 (p.177)
[3]  da Valzer di Spina
[4] da Valzer di Spina



Il teatro dei non attori.
L’esperienza formativa del teatro di frontiera.
  
Nel teatro dei non attori si gioca a “fare il teatro”: ci si incontra una volta alla settimana, o tutti i giorni, se si è vicini allo spettacolo. Si provano mille volte azioni, battute, gesti, motivazioni, emozioni…la sera, dopo il lavoro, o lo studio, o la domenica, rinunciando a pranzi in famiglia o visite ai fidanzati.
Per due o tre ore si diventa attori, sapendo sempre di non esserlo, è chiaro: si abbandonano pudori e insicurezze, ci si cambia d’abito e di cappello, e si va in scena.
Questo è il mio “teatro di frontiera”, una definizione un po’altisonante che rende l’idea di limite e allo stesso tempo di scoperta che è propria del teatro fatto nei piccoli palcoscenici della Toscana: qui ogni paesino ha in un granaio, in una vecchia chiesa sconsacrata, o magari in una sala comunale, il proprio teatro.
Il limite, la frontiera, è innanzitutto fisico: teatri piccoli, difficili da raggiungere, pochi spettatori (anche quando la sala è piena!), pochi soldi per allestire uno spettacolo, poca, o del tutto inesistente, copertura mediatica degli eventi.
Ma esiste anche un limite impalpabile, non tangibile, ma ben evidente: la diffidenza, il sospetto verso tutto ciò che è troppo nuovo, che sappia di ricerca, che non sia immediatamente divertente.
Eppure.
Eppure, lavorando a fondo sul pubblico e sui testi da allestire, sugli spettacoli, aspettando sulla porta chi sai che doveva venire, anche a costo di far iniziare lo spettacolo più tardi… qualcosa cambia, e nascono i non attori: ragazzi o persone mature che amano il teatro, lo frequentano, dapprima, e poi lo vivono in prima persona.
Di questa passione quasi nessuno fa un lavoro, anche se alcuni ne avrebbero la capacità: anche questa è frontiera, limite tra il “lavoro vero” e quello che fai per divertirti, anche se di questi tempi di “lavoro vero” ce n’è poco, e magari si sopravvive proprio grazie alla creatività, e al divertimento, se costruttivo.
Ed ecco la scoperta, l’inaspettato, che coglie chi sta in piedi sulla linea di confine, sulla frontiera appunto: i laboratori di teatro sono sempre più frequentati, e il pubblico sensibilmente aumenta, e sopporta anche testi difficili, di autori molto conosciuti, ma magari per testi più famosi e accessibili, oppure di autori del tutto sconosciuti, che scrivono sugli attori che si trovano davanti.
Io sono una di questi.
Come regista, ho potuto lavorare su testi di Agota Kristof, Friedrich Dürrenmatt, Slawomir Mrozek, David Mamet, e verificare come le loro parole colpiscano il pubblico in maniera inaspettata, e personale, diretta.
Come autrice, ho potuto provare direttamente l’efficacia delle mie parole dette dall’attore, o meglio, dal non attore: e soprattutto le ho immaginate, già sulla carta, nel momento in cui sarebbero state dette.
Questo è uno dei vantaggi dello scrivere i testi delle piéces che vengono allestite durante i laboratori: una volta scelto l’argomento, il tema da trattare, lo si affida a chi si ha davanti, lo si mette in prova, lo si declina secondo personaggi che già esistono e ragionano per conto proprio. Bisogna solo sorvegliare che il corso degli eventi non sfugga di mano.
Ho parlato dell’adolescenza come periodo di attesa di un futuro in cui realizzare sogni d’amore, una passione, o un lavoro, semplicemente facendo sedere delle ragazze sul proscenio, di fronte ad una porta da varcare, inevitabilmente, quando chiamate: in questo spettacolo, Itaca,  nessuna delle protagoniste sapeva perché era stata chiamata, ne’ da chi.
Aspettava, solamente. E insieme alle altre, cercava di dare un senso a questo periodo di attesa.
Ho preso in prestito il protagonista de Il barone rampante di Italo Calvino per spiegare la ferrea determinazione di chi, oggi,  decide di non allinearsi a ciò che lo circonda, e propone un proprio modo di vivere: non era un caso, credo, che proprio mentre allestivamo questo spettacolo, La rivoluzione di duemetri, in Italia studenti e operai salivano sui tetti per protesta, proprio come Cosimo, barone di Rondò.
Ho infine affrontato il tema del suicidio in un paesino dove, curiosamente, il tasso dei suicidi è superiore alla media nazionale, senza che nessuno si sia domandato il perché, dato che motivi apparenti non ce ne sono: i non attori  che hanno recitato in questa commedia (perché di commedia si tratta!) durante le prove si sono chiesti il motivo di questo strano primato, e lo stesso ha fatto chi, abitante del paese, quella commedia l'ha vista.
D’altro canto, sta proprio qui, secondo me, l’esperienza formativa di simili laboratori teatrali, che si rivolgono a chi non vuole diventare attore, ma vuole solo affinare la propria capacità naturale per esprimere sulla scena emozioni e interrogativi altrimenti rimasti inespressi.
Tutto ciò che sta sul palcoscenico è messo sotto una lente d’ingrandimento, non solo dal pubblico, ma anche dall’attore:  la parola detta risuona nella testa di chi la dice e di chi la ascolta, e il gesto che l'accompagna la sottolinea, rendendola più comprensibile, e chiara.
Il teatro diventa quindi un luogo privilegiato per "mettere alla prova" la realtà esterna, la relazione del singolo con la società, o le sensazioni e le domande più intime e esistenziali: allestire uno spettacolo richiede mesi di lavoro, e in questo periodo si ha il tempo di mettersi di fronte a queste tematiche, tempo che i non attori  si ritagliano dalla propria vita privata, fatta di lavoro, studio, famiglia.

Il tempo per pensare, e farlo confrontandosi con gli altri: questo, in tempi di serate passate da soli davanti alla televisione,  è secondo me il dono che questo "fare teatro" porta ai non attori.

in ricordo di Alpo


Il teatro e l'impegno


“Un saggio orientale chiedeva sempre, nelle sue preghiere, che la divinità volesse risparmiargli di vivere un’epoca interessante.
Poiché noi non siamo saggi, la divinità non ci ha risparmiato e viviamo un’epoca interessante che non ammette in ogni caso che ci si possa disinteressare di essa. Gli scrittori di oggi lo sanno.
Se parlano, eccoli criticati ed attaccati. Se, divenuti modesti, tacciono, non si parlerà più che del loro silenzio, per rimproverarglielo clamorosamente.
In mezzo a questo baccano lo scrittore non può sperare più di tenersi in disparte per seguire le riflessioni e le immagini che gli sono care. Fino ad oggi, bene o male, l’astensione è stata sempre possibile nella storia: chi non approvava poteva spesso tacere o parlare d’altro.
Oggi tutto è cambiato, lo stesso silenzio assume un significato indubbio.
Da momento in cui la stessa astensione è considerata una scelta, punita o lodata come tale, l’artista, lo voglia o no, è “imbarcato” e dico “imbarcato” perché mi sembra più giusto che “impegnato”. Poiché non si tratta per l’artista di un impegno volontario ma piuttosto di un servizio militare obbligatorio. Ogni artista oggi è imbarcato nella galera del suo tempo e deve rassegnarvisi, anche se ritiene che la galera ha sentore equivoco, che i capiciurma sono veramente troppi e che, per giunta, la rotta non è quella buona. Siamo in alto mare. L’artista, come gli altri, deve remare a sua volta, senza morire, se è possibile, cioè continuando a vivere e a creare.”

(Albert Camus, dalla Conferenza del 14 Dicembre 1957, intitolata L’artista e il suo tempo, pronunciata nell’Università di Upsala, Svezia).


Basterebbero queste poche righe per spiegare quello che secondo me è il ruolo dell’artista, e quindi del drammaturgo, del regista, dell’uomo di teatro rispetto al suo tempo.

Ma per non lasciare queste parole nella pura astrazione letteraria alla quale vengono confinate, se lette solo con gli occhi, e non dette ad alta voce, come avviene appunto sul palcoscenico, o avvenne durante la conferenza in cui vennero pronunciate, vorrei renderle vive con un esempio pratico, a me molto caro.

Il primo modello di teatro calato nella contemporaneità, e nella società che lo circonda, l’ho incontrato non lontano dal posto dove vivo io, in un paesino della Val d’Orcia, chiamato Monticchiello, un posto speciale, dove tutto il paese ogni estate va in scena, dal 1967.

Questo di per sé non è affatto speciale, in molti paesi italiani ci sono longeve compagnie amatoriali di livello, in cui recitano attori che non hanno niente da invidiare ai professionisti; la particolarità di  Monticchiello è però in quello che viene messo in scena, cioè la propria storia, la propria vita, le riflessioni su cosa accade e accadrà, in quello che è stato definito da Giorgio Strehler un autodramma[1].

A livello pratico, l’autodramma è nato dal confronto del gruppo degli attori, gli abitanti del borgo, con un provocatore, non un semplice scrittore di testi teatrali, o una figura che raccolga le storie, o le memorie, ma un operatore culturale che si pone come voce interrogante: in risposta a tale figura, l’intero paese si riunisce, durante l’inverno, per discutere il testo da mettere in scena, le tematiche, i personaggi, cosa dire,  insomma.
Da questo confronto, talvolta anche molto acceso, poiché i temi trattati sono sempre molto vicini alla quotidianità, e per questo problematici, nasce dapprima un canovaccio, e poi un testo vero e proprio, che viene recitato per circa un mese, durante l'estate, nella piazza del borgo.

Nasce così, nel 1969[2], il Teatro Povero di Monticchiello, un palco privilegiato dal quale parlare a migliaia di spettatori di ciò che accade in Italia e nel mondo, partendo da fatti quotidiani di un piccolo paese di neanche 300 persone, e da specifici eventi storici che ne hanno segnato la memoria; infatti, da più di quarant’anni i testi messi in scena ruotano intorno a un episodio drammatico della resistenza partigiana, quando i monticchiellesi furono messi al muro, e fatti rimanere per alcune ore sospesi in attesa dell’esecuzione (che per fortuna non avvenne).

Questa è appunto la tematica del primo spettacolo definito autodramma, “Quel 6 aprile del '44”, ma questo evento viene riproposto più volte nei testi successivi, quasi a significare un punto di partenza imprescindibile, da rivivere, ridiscutere e contestualizzare.
Si parte quindi dalla memoria di ciò che avvenne,  per arrivare poi a parlare della contingenza, della crisi economica e morale, dell'incertezza del futuro, dei problemi lavorativi delle nuove generazioni, del rapporto dell'uomo con l'ambiente...

La ritualità del Teatro Povero è rimasta inalterata in tutti questi anni, anche se sono cambiati i modelli narrativi e le modalità della messa in scena, e anche il gruppo degli attori che si autonarrano è nel tempo cambiato, sebbene alcuni vadano ancora in scena, e siano ormai riconoscibili come gli “attori di Monticchiello”; il problema del rinnovamento della Compagnia, e dell’opportunità della fine di questa esperienza si è posto molte volte, negli ultimi anni, e persino di questo se n’è fatto spettacolo, trovando nel mezzo teatrale la cura ai suoi stessi mali, primo fra tutti la ripetitività.

A Monticchiello la memoria storica è veramente linfa vitale per tutto ciò che viene detto di nuovo, è prospettiva imprescindibile per guardare alla contemporaneità; negli anni è stata anche fardello scomodo e pesante, ma comunque presente, e, a suo modo, interrogatrice implacabile dello svolgersi quotidiano della realtà.

Il caso di Monticchiello, il fare teatro che nasce da un'esigenza reale di comunicazione e di confronto, rappresenta bene secondo me quest'essere imbarcati nella galera del proprio tempo di cui parla Camus,  cogliendo perfettamente la sensazione di spaesamento che prende ogni volta che si lascia la terra ferma per navigare verso un orizzonte non ancora rivelato.

È proprio questa sensazione di incertezza verso il futuro che ci richiama alla memoria, all'impegno e alla responsabilità, dandoci la chiave di interpretazione di ciò che ci circonda e che ci aspetta: il passato diventa vitale quando viene continuamente interrogato e posto a confronto con ciò che ne è nato, con le conseguenze storiche, sociali ed economiche che ne sono derivate.
Non è un caso se sempre più spesso per interpretare quello che sta accadendo oggi nel mondo si fa riferimento alla crisi del ’29, e si cerchino con essa similitudini, e differenze: non è un semplice esercizio di confronto, ma un modo per capire quale sia la direzione da prendere.

In questo contesto, il ruolo del drammaturgo, di chi può parlare attraverso la propria arte ad un pubblico, e da un palcoscenico esprimere le proprie idee, diventa cruciale: si ha infatti la possibilità di condividere con chi ti ascolta parole ed immagini, ed attraverso queste sviluppare concetti, richiamare ricordi, proporre vie di fuga, possibili strade alternative, e forse anche soluzioni.

Il mezzo teatrale è molto potente, perché il pubblico al quale si rivolge è già disposto ad abbandonare il ritmo quotidiano per dedicare del tempo alla visione di uno spettacolo: bisogna partire prima, comprare un biglietto, attendere l’aprirsi del sipario…
Il pubblico è quindi già sbilanciato  verso il palcoscenico: un libro puoi aprirlo quando e dove vuoi, uno spettacolo devi andare a vederlo.
E’ un rito collettivo, induce al confronto, alla circolazione delle idee, delle proposte, e, a differenza di un film proiettato in un cinema, la presenza dal vivo degli attori porta naturalmente alla partecipazione emotiva, all’ identificazione, all’ interrogazione (perché questo personaggio sta dicendo questo? Potrebbe decidere di dire o fare altrimenti!).

Questa opportunità di parlare, e di essere ascoltati, raggiunge la sua forza più grande quando la voce che prende vita viene dal passato, anche recente, e interroga direttamente il nostro presente: la memoria veste i costumi di un personaggio, e si mostra agli occhi di tutti, rivelandosi immediatamente reale, diventando così strumento prezioso per l’analisi del proprio tempo, togliendosi di dosso la polvere degli anni trascorsi.

La parola detta, non scritta, è l’essenza del teatro: è quindi naturale che il tempo faccia parte del lavoro del drammaturgo, il tempo storico, il tempo sociale, il tempo passato e il tempo presente, il tutto racchiuso dal tempo di una messa in scena e dallo spazio di un palcoscenico[3].










[1] “una forma particolare di dinamica scenica: un modo di vedere il teatro nell’incontro tra storia del passato- del proprio passato- e storia di oggi. E sarà perfettamente chiaro (…) che in uno studio della propria storia c’è la coscienza di un quadro più vasto della storia, dove si giustificano episodi ed esperienze peculiari”  (da M. GUIDOTTI, Il teatro povero di Monticchiello, Images 70 Editrice, Padova, 1974)
[2] “ Il progetto del Teatro Povero nasce e si sviluppa a Monticchiello molto prima della precisa data del suo inizio. L’esperienza teatrale sembra essere una componente strettamente legata alla vita ed alla storia della comunità fin dal passato, come confermano numerose testimonianze.
Le prime rappresentazioni drammatiche infatti risentono di una primitiva vocazione alla festa popolare e costituiscono momenti ricreativi che accompagnano la vita del paese.In seguito, quando si comprende che attraverso questo complesso “rituale” il paese può vincere il rischio dell’isolamento e della disomogeneità il teatro assume per Monticchiello un significato nuovo ed importante” (www.teatropovero.it)
[3] Ciò non impedisce naturalmente che alcune opere siano considerate dei classici, e che risultino attuali anche a distanza di secoli: il richiamo a valori universali, storie archetipe e condivise permette loro di rivolgersi indistintamente all'uomo moderno come all'abitante dell'Atene del V sec. 



Lo stato d'assedio della crisi

A cento anni dalla nascita di Albert Camus, la figura dello scrittore francese, algerino di nascita, rimane ancora in ombra rispetto a quelli che vengono considerati i “grandi” della letteratura europea contemporanea.
Le motivazioni possono essere molteplici, non ultima la sua difficile “classificabilità”: fu giornalista, drammaturgo e attore, regista, scrittore di saggi filosofici (L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo tra tutti) e di romanzi (La peste e Lo straniero, i più conosciuti), personaggio complesso e scomodo (si ricordi la querelle con Sartre).
Un intellettuale a tutto tondo, che però nemmeno l’assegnazione del Premio Nobel del 1957  ha salvato dall’essere prematuramente e immeritatamente dimenticato.

Come drammaturgo, la sua produzione si riduce a sole quattro piéces, raramente messe in scena in Francia, quasi ignorate in Italia: Il malinteso (1944), Caligola (1945), Lo stato d’assedio (1948) e I giusti (1949).

Recentemente, la rivista Hystrio ha dedicato ad Albert Camus un articolo nel quale si percorre la fortuna (o piuttosto sfortuna) delle sue opere teatrali, essendo state messe in scena in Italia solo in poche occasioni, e quasi mai di recente[1]: indagando le cause del difficile rapporto tra Camus e il pubblico teatrale (in alcuni casi furono dei fiaschi anche gli allestimenti che curava egli stesso dei suoi lavori, per primo Lo stato d’assedio), la prima è, a mio avviso,  da ricercarsi nella scrittura.

I testi camusiani sono densi, carichi di concetti filosofici, politici e anche metafisici, più facilmente leggibili che non dicibili: l’azione viene ridotta al minimo, e, anche quando è al centro della piéce, come ne I giusti, viene raccontata, più che agita.

Non che il palcoscenico non sia luogo di profonda analisi esistenziale o politica, anzi; ma la battuta detta dall’attore vive nel breve spazio tra sipario e platea, e deve essere subito chiara, esatta, per poter entrare nella testa e nel cuore del pubblico: l’idea, in scena, è sempre detta da un uomo, e perciò deve potersi incarnare, senza rimanere sospesa in aria.

Ad esempio, il dramma tutto umano del giovane imperatore romano, nel Caligola (“Gli uomini muoiono, e non sono felici”) lo pone molto vicino al pubblico, e sebbene la piéce abbia alla base concetti filosofici molto complessi, gli stessi che ritroviamo ne Il mito di Sisifo, questi vengono espressi con concretezza, e vissuti in prima persona dal protagonista[2].

Tutt’altro discorso va fatto per Lo stato d’assedio, rappresentato da Camus nell’ottobre del 1948, utilizzando la scenotecnica più all’avanguardia, alla maniera di  Piscator : lo spettacolo fu un clamoroso fiasco, di pubblico e di critica, anche se a dieci anni di distanza,  una compagnia teatrale di algerini lo replicò con successo.

Secondo alcuni critici le cause del fallimento vanno cercate  nei contenuti  piuttosto che nella sola forma, prima fra tutte la totale mancanza di suspence della piéce, essendo il sacrificio del protagonista fin dall'inizio in qualche modo preannunciato: ma è anche l'ambiguità della figura della Peste, personaggio vestito da militare che irrompe nella cittadina di Cadice per regnare incontrastata sui suoi abitanti, che può aver disorientato il pubblico.

Metafora del totalitarismo che dis-umanizza e sconvolge l'apparente tranquillità della cittadina, la Peste scardina l’abitudine del “niente è successo, niente succederà” (le regole del Governatore)  e con la sua sola presenza impone una risposta, sia essa passiva (gli abitanti di Cadice che in massa si adattano alle nuove norme e regole) che attiva (Diego, che forte del suo senso di  libertà e dell'amore tutto umano per Vittoria, si pone a capo della rivolta): pur totalmente negativo, quindi, il personaggio della Peste provoca una sorta di risveglio delle coscienze, mettendo di fronte alla realtà chi prima si adattava e abbassava la testa.

Una tale lettura era forse troppo complessa a ridosso della fine della guerra, quando la netta divisione tra vinti e vincitori, cattivi e buoni, era necessaria per sanare le ferite della coscienza e per ricostruire l'ordine: non era forse tempo per le ombreggiature, le sfumature, nei personaggi quanto negli uomini.

E' quindi adesso il tempo per una nuova messainscena?

Volendo dare una risposta a questo interrogativo, ho recentemente lavorato ad una riduzione de Lo stato d'assedio e dato nuova voce alla Peste, a Diego e a tutti i personaggi di Cadice: in fase di riscrittura ho cercato di snellire il testo e dare un ritmo più incalzante alle battute,  proponendo ai miei non attori (vedi articolo Il teatro dei non attori) l'opera di Camus come metafora dell’attuale situazione di crisi economica e morale.

L'accoglienza è stata sorprendente: tolti i panni militari, con una ventiquattrore in mano e una giacca di ottimo taglio, la Peste è diventata simbolo della finanza e dell'alta economia che tutto schiaccia e tutto comanda, e non è fuori luogo, purtroppo, anche la Segretaria (la morte), che elimina coloro che non rientrano più nelle statistiche, chi non fa più parte del meccanismo, chi non si adatta.

In questa prospettiva, viene visto sotto una nuova luce anche l'apparato burocratico che viene instaurato dalla Peste, le inutili attività che vengono imposte ai cittadini, le lungaggini e le ridicole norme che  costellano la loro nuova vita: il grido “Date il via ai grandi lavori inutili” che apre il secondo atto ha risuonato nelle orecchie degli attori e del pubblico indicando lo specchio di una società che si affanna a fare senza costrutto, a costruire senza consolidare, a comprare ciò che inutilmente si possiede.

Il personaggio che più ha colpito pubblico e non attori è, assieme al protagonista Diego, il nichilista Nada: il non allineato che vorrebbe smuovere tutto, che vorrebbe che tutto cambiasse in opposizione all'immobilismo proposto dal Governatore di Cadice, e che, all'arrivo della Peste, si mette al servizio della burocrazia, perché “Con un nome simile dobbiamo lavorare insieme!” (Segretaria, II parte).

Il monologo finale di Nada, espressione del disincanto e dell'amarezza per un mondo che non vuole cambiare, e per un popolo che non vuole vedere, dà voce a uno degli atteggiamenti più comuni nel momento attuale, che, a fronte dell'entrata in crisi dell'intero sistema economico mondiale, vede riaffacciarsi le stesse modalità di governo, di commercio e di speculazione finanziaria: “Eccoli! Arrivano gli anziani, quelli di prima, quelli di sempre, gli impietrati, gli ottimisti, gli agiati, i senza uscita, i rileccati, tutta la tradizione seduta, prospera e ben rasata. Eccoli i sartorelli del nulla: sarete vestiti tutti su misura. Ma non vi allarmate: il loro metodo è il migliore. Invece di chiudere la bocca a chi grida la sua sventura, si chiudono le orecchie. Eravamo muti, diventeremo sordi.
Attenzione: ritornano quelli che scrivono la Storia.  Ricominciamo a curarci degli eroi. (…) Sì, ricomincerete, ma non è più affar mio. (…) Addio, brava gente: un giorno imparerete che non si può vivere bene, sapendo che l'uomo è nulla e che il volto di Dio è tremendo.”

L'atteggiamento di Diego, l’eroe che sacrifica la sua vita per amore di Vittoria e per la popolazione di Cadice, è quello di chi non si piega, già sapendo che il proprio destino è la sconfitta: eroe tragico per eccellenza, Diego sfida la morte in un bellissimo dialogo in cui fa appello alla disordinata umanità che non vuole farsi numero, alla bellezza tutta umana che non può mettersi nei ranghi: e uomo in rivolta vince, pegno la propria vita, la Peste, ricacciandola per un po’ ai margini della cittadina.

Una rivolta che nasce dal basso, da coloro che sanno di non avere altro che la propria dignità di uomini e donne su cui far leva: la situazione attuale si è specchiata nella messainscena e gli ingranaggi del totalitarismo politico sono diventati, altrettanto schiaccianti, quelli della globalizzazione economica.

Questo è stato subito chiaro, tanto al pubblico quanto agli attori, o meglio, ai non attori: ed è proprio per loro che ho scelto questo testo, prendendolo in prestito da chi certo non immaginava una Peste in giacca e cravatta, avendo negli occhi le immagini di ben altri pericoli, con medaglie appuntate al petto, a guardare ridicole parate militari.

Ma adesso la minaccia non ha medaglie per farsi riconoscere, e allora ho pensato che fosse giusto accostarla, sul palcoscenico, idealmente, a chi abbiamo imparato a riconoscere come “l’uomo cattivo”, il dittatore, il prevaricatore… poco importa se adesso in mano ha un computer portatile e in testa un taglio di capelli alla moda: il pubblico si è immedesimato negli abitanti di Cadice, e non si è fatto ingannare, apprezzando l'allestimento proposto.

Se quindi la grandezza dei classici sta nella prova del Tempo, ritengo che Camus possa rientrare tra quanti hanno saputo fermare nella propria opera le vicende immutabili dell'umanità, riuscendo, nel ritrarre le fosche tinte della società che lo circondava, a parlare anche alle generazioni future.

Purtroppo.










[1] Hystrio, 1/2013
[2] in Italia Caligola ha visto l'esordio del giovane Carmelo Bene nel 1959 al Teatro Argentina di Roma

(articoli  pubblicati sulla rivista BAT e su COSMOPOLIS)

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